4 ore ad Auburn Hills nel quartier generale di Fiat Chrysler Automobiles, ora definito da tutti come il secondo edificio più grande degli Stati Uniti dopo il Pentagono. Così la visita del premier Matteo Renzi a “casa Marchionne” ha tenuto banco sulle prime pagine dei giornali italiani. Buona parte dei commenti sono incentrati sui temi politici di stretta attualità (riforma del Lavoro e giudizi sull’operatore del Governo in primis). Ma c’è un risvolto potenzialmente positivo per noi automobilisti che secondo me vale la pena evidenziare: la presa di coscienza da parte del numero uno dell’esecutivo dell’importanza dell’industria dell’auto per l’economia di un Paese. E quindi (mi auguro), una nuova sensibilità su tutto ciò che può influire sulla salute del mercato dell’auto e sulle tasche di chi l’auto la compra e la usa. Renzi ha visto con i suoi occhi (io credo per la prima volta) cosa muove un costruttore di automobili. In termini industriali, economici, occupazionali e di investimenti in ricerca e sviluppo. Ha visto le auto di domani e probabilmente qualche prototipo che arriverà dopodomani. Ma soprattutto ha ascoltato il numero uno di una Casa automobilistica, Sergio Marchionne, da cui ha incassato garanzie sul ruolo che avranno gli stabilimenti italiani per il futuro del Gruppo “Made in Italy". Al di là dei mielosi convenevoli sui quali si può stare a discutere per ore, (Renzi: "Fiat e Chrysler mi piace, è straordinaria, eccitante ed esaltante" - Marchionne: "Renzi non ha paura: questo abbiamo in comune”) adesso possiamo sperare che il Governo cambi approccio nel modo di considerare l’automobile e gli automobilisti. Che non sono solo una categoria da spremere direttamente o indirettamente con gli aumenti di IVA, IPT, bollo, superbollo, RC, accise sulla benzina e chi più ne ha più ne metta. Perchè l’uso e l’acquisto dell’automobile fa muovere una filiera che vale il 12% del PIL e occupa 1.200.000 persone. Dunque merita più considerazione politica. Forse Renzi lo ha capito e ora lo deve spiegare ai suoi Ministri. Incrociamo le dita, ancora un volta, sperando sia l’ultima.
Fonte omniauto.it
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