Fiat non c'è più. Al suo posto è nata FCA (Fiat Chrysler Automobiles), frutto della fusione fra il gruppo di Torino e quello di Detroit.
AGLI ALBORI DELLE QUATTRO RUOTE - La Fiat, Fabbrica Automobili Torino, era stata fondata esattamente 125 anni e tre mesi fa per iniziativa di alcuni nobili torinesi ai quali si unì Giovanni Agnelli, il capostipite di una famiglia che ha legato i propri destini a quelli dell'Italia per oltre un secolo. Davanti a questa svolta epocale di quella che per oltre cento anni è stata la più grande industria italiana non è solo per curiosità che è giusto chiedersi quale sarebbe stato il giudizio di Giovanni Agnelli, il nipote del fondatore, se avesse potuto assistere a questa evoluzione di quella che per decenni è stata la sua creatura.
AVVOCATO E INTERNAZIONALISTA - Anche i suoi maggiori detrattori all'Avvocato hanno sempre riconosciuto una vena internazionalista. Magari un po' dandy, forse più da salotto che da piano industriale, ma sicuramente attenta a ciò che avveniva al di là delle Alpi. Con un occhio rivolto particolarmente alla Francia e agli amatissimi Stati Uniti. Unire il marchio Fiat, al quale era particolarmente affezionato a quello di un'azienda storica come Chrysler lo avrebbe fatto sicuramente felice. Sicuramente di una cosa sarebbe stato enormemente soddisfatto: che alla guida del nuovo nuovo gruppo fortemente imparentato con gli americani ci fosse ancora la famiglia, la sua famiglia, la famiglia degli Agnelli.
TUTTO IL POTERE A GIANNI - Gianni Agnelli, fin da quando aveva smesso di bighellonare nel bel mondo per trasformarsi in un umile discepolo del mitico Vittorio Valletta, era stato guidato da una fidata stella polare: conservare e aumentare i possedimenti degli Agnelli. Ed è noto che spinse questa missione fino a fare degli Agnelli una sorta di famiglia regnante, con una corte, uno stile, un rituale e un culto: quello di fare diventare sempre più grande il potere che emanava da Torino. Spesso, come giustamente gli è stato rimproverato per anni, ampiamente a spese dello Stato, cioè del resto degli inconsapevoli italiani.
UN GUARDIANO CHIAMATO CUCCIA - Per raggiungere questo obiettivo l'Avvocato, dal giorno che prese le redini dell'azienda, pretese una garanzia, che il potere degli Agnelli, a partire da quello in famiglia, fosse concentrato tutto nelle sue mani. Tutt'al più poteva poteva concepire qualche figura collaterale che lo affiancasse nel conseguimento dei suoi traguardi. Come fu soprattutto Enrico Cuccia, potente cane da guardia per tutta la sua carriera degli interessi di Fiat, dalle ovattate, o per meglio dire blindate, stanze di Mediobanca.
PADRONI IN CASA PROPRIA - Quanto fosse attaccato a questo senso assoluto del possesso di tutto ciò che portava impresso, direttamente o indirettamente, il marchio Fiat, l'Avvocato lo dimostrò in tutta la sua evidenza quando, nel pieno di una delle crisi ricorrenti dell'azienda, respinse le insistenti avance della Ford: «Ognuno deve comandare in casa propria», disse con garbo, ma ferrea determinatezza ai giornalisti al termine di una assemblea del gruppo. E con queste poche parole mise la parola fine ad una trattativa che aveva tenuto con per settimane con il fiato sospeso lavoratori, sindacati, mondo politico.
IL MISTERO GHEDDAFI - Gianni Agnelli si muoveva come un re e provava un gusto particolare a liquidare con una battuta grandi questioni. Si comportò così anche quando si trattò di chiudere uno degli episodi più misteriosi della storia di Fiat. Era accaduto infatti che all'inizio degli anni settanta gli Agnelli, a corto di soldi, furono nella necessità, per non chiudere o vendere, di trovarsi un robusto finanziatore. Il cavaliere bianco, al quale affidare il 13 per cento di Fiat, arrivò a Torino, ma inaspettatamente aveva il volto di Gheddafi, il dittatore che in quello stesso periodo dagli Stati Uniti si era guadagnato il «wanted» di nemico pubblico numero uno degli americani. «La Lafico, la società che rappresenta Gheddafi, ci ha restituito le nostre azioni. A noi è andata bene e loro hanno fatto un buon affare», confidò ai giornalisti, ancora al termine di una assemblea. E così chiuse la partita libica. Quella volta non si trattò di una battuta e nemmeno di una informazione, perchè l'Avvocato si guardò bene di spiegare come mai un pacchetto decisivo per il controllo di Fiat fosse finito, senza correre alcun rischio, nelle mani di un signore che andava organizzando attentati in mezzo mondo.
UN COLPO DA 3500 MILIARDI DI LIRE - Ma il vero colpo da maestro l'Avvocato lo mise a segno con General Motors. Convinse infatti gli americani a firmare un contratto per un acquisto ritardato della Fiat. Quando venne il momento di onorare l'impegno il gruppo torinese era ormai talmente a pezzi che GM preferì pagare 3500 miliardi di lire pur di non accollarsi quel ferro da stiro italiano. Quei soldi servirono alla rinascita dell'azienda proprio quando sembrava sul punto di collassare. Il resto, quando l'Avvocato ormai non c'era più, per una piccola parte lo fece Sergio Marchionne. Poi ci fu l'avvento di quel miracolo chiamato Chrysler. Un miracolo figlio sia della crisi dell'auto americana, sia del gesto disperato di Obama di regalare, per salvarla, una delle fabbriche più prestigiose d'America ai torinesi (ma guidati da un italo-canadese).
FINISCE FIAT, COMINCIA FCA - Come è andata a finire lo sappiamo. La sede legale di Fiat se ne è andata in Olanda, quella fiscale a Londra, le azioni a Wall Street. E le fabbriche? Marchionne ha garantito che quelle che sono rimaste in Italia non prederanno il volo per lidi più profittevoli.
L'ULTIMA PROFEZIA DELL'AVVOCATO - Al manager italo canadese è giusto dare fiducia. Ma anche lui conosce la profezia dell'Avvocato sul destino dell' industria automobilistica mondiale: «Resteranno in vita solo sei marchi, non di più», vaticinò Gianni Agnelli. In circolazione ci sono ancora ancora 9-10 marchi. Per chi suonerà la prossima campana?
Fonte economia.diariodelweb.it
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