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Dalla crisi a Chrysler. La rivoluzione Fiat targata Marchionne

Così dal 2004 a oggi l’ad ha cambiato il Lingotto,
trasformandolo in gruppo globale

Compie dieci anni la Fiat di Sergio Marchionne
 

La prima immagine, dai toni cupi, è del 1° giugno 2004 al centro storico Fiat di Torino. Accanto a un giovanissimo John Elkann che diventa vicepresidente sul campo, dopo che in soli sedici mesi sono scomparsi il nonno Giovanni e il prozio Umberto, ci sono il neopresidente Luca Cordero di Montezemolo e un nuovo amministratore delegato che si chiama Sergio Marchionne. 
È ancora sconosciuto agli italiani e si presenta - irritualmente, scopriremo poi - in giacca e cravatta. Fuori dalla porta, anche se non si possono vedere, ci sono alcuni convitati di pietra. Gli americani di General Motors, che hanno stretto nel 2000 un’alleanza con Fiat di cui adesso non vedono più i vantaggi, non hanno certo programmi esaltanti per il gruppo italiano; poi le banche di casa nostra che hanno prestato tre miliardi di euro a Torino e che se non verranno rimborsate a breve diventeranno assieme il primo azionista del gruppo. «Posso solo dire che la Fiat ce la farà e che tornerà ad essere quella che è sempre stata», registrano le agenzie di stampa, riportando le parole di quel manager di origine italiana ma cresciuto in Canada, che sbarca come un marziano a Torino.  

La seconda istantanea è a settemila chilometri e dieci anni di distanza, 6 maggio 2014. Nella sede della Chrysler, anzi di Fiat-Chrysler, ad Auburn Hills , Nord di Detroit, lo stesso Marchionne presenta i piani del gruppo fino al 2018 e spiega davanti a qualche centinaio di giornalisti e analisti finanziari che l’azienda che hanno davanti «non vuole scrivere un nuovo capitolo, ma un libro interamente nuovo. Oggi ci presentiamo a voi per la prima volta come un gruppo automobilistico globale, il settimo al mondo». Quanto di più lontano, insomma, da «un gruppo tecnicamente fallito», come ha ricordato lui negli anni di mezzo quel Lingotto del 2004.  


Le sfide  
Un decennio vissuto di gran corsa e una rivoluzione completa - forse addirittura una rivoluzione permanente - nella Fiat a trazione Marchionne, l’amministratore delegato che domani non pensa di certo a festeggiare quell’anniversario tondo del 1° giugno, ma in qualche modo lo celebra comunque. Come? Appuntamento a Trento, davanti alla platea del Festival dell’Economia, per discutere di un libro che non caso s’intitola «Made in Torino?», con un punto interrogativo che riecheggia molte domande sulle sfide ancora aperte dopo quelle già vinte.  

Di sfide, in questi dieci anni, ce ne sono state molte. A cominciare proprio dal rapporto con la General Motors, che nell’aprile 2005 - dopo un faccia a faccia pokeristico a metà febbraio tra Marchionne e il numero uno degli americani Rick Wagoner - versa un miliardo e mezzo di euro perché la Fiat rinunci a esercitare quell’opzione «put» che le avrebbe consentito di dare la maggioranza del gruppo a chi invece non la voleva più. Un mese appena e anche l’altra grande incognita sul destino di Fiat - quella del convertendo - si risolve con un aumento di capitale che porta le banche vicino al 25% ma lascia la maggioranza relativa nelle mani della famiglia. È il 2005 della prima svolta. Un anno prima il gruppo ha chiuso il bilancio con una perdita di 1,5 miliardi. Adesso, dopo un anno e mezzo di «metodo Marchionne» e con la decisione di concentrarsi sul settore dell’auto, il 2005 si conclude con 1,4 miliardi di utile.  

I due anni successivi sono di consolidamento, anche con l’arrivo della nuova Cinquecento, mentre la crisi sembra ormai essere alle spalle. Ma il peggio, per l’economia mondiale ed europea, deve ancora arrivare. L’onda dei subprime nel 2008 sconvolge gli Stati Uniti e attraversa l’Atlantico con effetti che per Fiat hanno due facce. La crisi, infatti, colpisce duro il mercato dell’auto italiano ed europeo e Marchionne ammette che «il 2009 sarà l’anno più difficile della mia vita perché sono state spazzate via le condizioni sulle quali avevamo definito i nostri programmi». La stessa crisi spinge però verso il fallimento quella Chrysler che risorgerà poi proprio sotto mani italiane. L’occasione di sbarcare Oltreoceano è unica. L’imperativo è quello di crescere. Marchionne teorizza che in un settore maturo «solo cinque o sei gruppi automobilistici resteranno a galla» e per essere tra quelli bisogna diventare ovviamente globali. 

Lo sbarco negli Usa  
Così nel giugno 2009, dopo un accordo con l’amministrazione Obama, il 20% di Chrysler è di Fiat che secondo gli impegni porterà al gruppo americano anche le tecnologie pulite di matrice europea. Nell’aprile 2010 il gruppo annuncia anche il piano «Fabbrica Italia»: obiettivo 20 miliardi di investimenti per arrivare a produrre nel 2014 oltre un milione di auto nel nostro Paese, spingendo forte sulla quota destinata all’export. Non andrà così e già nel 2012, di fronte a un’economia che non esce dalla crisi, il piano sarà rivisto. Per l’ad un errore riconosciuto e anche una lezione per il futuro.  

Sempre nel 2010 i rapporti con la Fiom si deteriorano sul tema della flessibilità. «Ho tirato avanti per quasi sette anni in un sistema ingessato, dove tutti sanno che le imprese italiane sono fuori dalla competitività», spiega l’ad, chiedendo di «cambiare le regole per garantire l’investimento attraverso il lavoro». Con i metalmeccanici della Cgil sarà rottura mentre gli altri sindacati - Fim, Uilm e Ugl - firmano invece accordi innovativi a Pomigliano d’Arco e Mirafiori. Marchionne intanto si divide con gli Usa dove la Chrysler - grazie a un’economia reale che si sta riprendendo in fretta, un rapporto collaborativo con il sindacato e un gran lavoro nelle fabbriche dove entra il World Class Manifacturing, il metodo di miglioramento continuo della produzione a marchio Fiat - si rimette in rotta. Da noi, dove la domanda langue, restano stabilimenti in cassa integrazione, ma c’è anche la piccola-grande rivoluzione della Maserati che dalla fabbrica di Grugliasco vince sui mercati esteri e cresce riassorbendo operai da Mirafiori. La quota della casa italiana in Chrysler sale secondo i programmi, fino all’accordo del gennaio di quest’anno in cui il fondo sanitario dei sindacati Veba cede la sua quota e Chrysler diventa Fiat al 100%. «L’obiettivo che abbiamo, se il mercato non ci tradisce, è di tornare ad avere tutte le persone al lavoro nelle nostre fabbriche», spiega in quell’occasione il presidente Elkann.  

Il futuro  
Il resto è cronaca dell’ultimo mese. Il gruppo che si rivela nei primi giorni di maggio ad Auburn Hills vede un traguardo al 2018 di sette milioni di auto con investimenti per 50 miliardi: il marchio Jeep, prodotto non più solo negli Usa, ma anche in Italia, punta al milione di vetture prodotte. L’Alfa Romeo, con otto nuovi modelli che partono dal prossimo anno dovrà seguire la strada della Maserati, scendendo in pista contro le berline tedesche che fino ad ora hanno monopolizzano il mercato. In questo modo l’Italia dovrà essere - rovesciando tradizioni che sembravano immutabili - piattaforma per l’export nel mondo, puntando appunto sulle vetture «premium». La contropartita, spiega Marchionne, è la piena occupazione anche nelle fabbriche italiane. Obiettivi ambiziosi, decreta il mercato. Forse troppo, dice qualcuno. Quel che è certo è che a quella scadenza del 2018, quando Fiat-Chrysler sarà ancora più di oggi un animale del tutto diverso da quello che trovò quel giorno di giugno a Torino, lui ha promesso di esserci ancora.  

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